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Interviste a ex volontari/e di PBI

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Valentina Veneroso durante un accompagnamento

Valentina Veneroso è attualmente in servizio come volontaria con PBI in Honduras. Ecco cosa ci ha scritto.

A due mesi dal mio arrivo in Honduras posso certamente dire di aver fatto al scelta giusta. C’è una cosa che mi ripeto di continuo: mi sento grata di essere qui e di essere parte di PBI. Durante la formazione pre-partenza abbiamo riflettuto e dibattuto molto, in gruppo, su cosa sia un privilegio. E di questo si tratta: avere il privilegio di vedere un altro posto nel mondo, fare tesoro degli insegnamenti di persone che lottano ogni giorno per la loro terra, per esprimere la loro identità, per far sì che un diritto sia realmente ciò che dovrebbe essere: qualcosa che spetta a tutti e tutte. Non sapevo cosa aspettarmi da questo paese, di cui esiste solo una narrazione stigmatizzata. In Europa arriva solo il marcio: la violenza, la corruzione, la povertà, le carovane di migranti che si lasciano alle spalle la loro terra. E non voglio minimizzare, tutto questo esiste e si respira, ma bisognerebbe conoscere anche il resto. Il profondo senso di giustizia e lotta che muove la sua gente, la convinzione dell’importanza di resistere e lavorare per la comunità, la dignità dei lavoratori e l’amore per quella stessa terra che i potenti, locali e non, vedono solo come una nuova colonia da cui trarre profitto. PBI lavora in Honduras dal 2013 e lo fa attraverso un accompagnamento integrale di persone difensore dei diritti umani durante lo svolgimento del loro lavoro, per permettere loro di agire in uno spazio il più possibile sicuro anche attraverso la presenza di volontari internazionali. Cosa significa? Li accompagniamo fisicamente in occasione di eventi pubblici, assemblee, mostriamo preoccupazione ad autorità nazionali o internazionali in caso di attacchi o violazioni, diffondiamo il loro lavoro e le difficoltà che si trovano ad affrontare affinché non si sentano sole e possano creare spazi di pace in cui poter sviluppare il grande potenziale di cambiamento democratico di cui sono rappresentanti. Da quando sono qui in questa veste ho potuto ad esempio assistere al processo Guapinol, in cui 8 difensori che hanno cercato di preservare l’acqua e la terra del Parco Nazionale Carlos Escalera fondamentali per la vita della loro comunità di appartenenza, sono stati accusati ingiustamente da un’impresa estrattiva, e da più di due anni sono in carcere senza alcun fondamento legale. PBI in casi come questi, svolge un ruolo molto importante, perché la presenza di osservatori internazionali permette di fare pressione affinché i processi, e non solo, si svolgano senza irregolarità, o attivare un lavoro di rete con la comunità internazionale. La difesa della terra è solo uno degli assi tematici su cui lavora PBI in Honduras, che accompagna anche organizzazioni in lotta per la libertà d’espressione e i diritti della comunità LGTBI+. A solo un mese dal mio arrivo si sono svolte le elezioni presidenziali e in questa occasione abbiamo accompagnato alcune donne trans durante la loro osservazione del voto in diverse urne. E’ stato molto emozionante sapere da loro, che la nostra presenza è utile e preziosa affinché possano sentirsi al sicuro ed evitare discriminazioni, così come lo è stato essere al loro fianco durante il giorno della rimembranza, in cui sono state ricordate le donne trans vittime di omicidio.

Tutte le persone con cui lavoriamo sono di grande ispirazione e svolgono un lavoro importantissimo per il loro paese quindi è davvero gratificante sentir dire loro che PBI fa la differenza nel loro quotidiano. Io in due mesi sento di aver già un bagaglio emozionale e degli insegnamenti di cui farò tesoro. Così come di ciò che giorno dopo giorno apprendo dal “mondo PBI”, che si costruisce in maniera orizzontale, attraverso il consenso e la motivazione di chi è sul campo, ma anche lontano geograficamente e in modi diversi supporta la sua esistenza e la volontà di creare spazi per la pace.

 

L'ex volontaria Valentina Piersanti******************************************

Valentina Piersanti è stata volontaria nel progetto Honduras di PBI dal 2019 al 2020.

Cosa ti ha spinto a scegliere PBI come organizzazione con cui fare un’esperienza di volontariato?

Ho conosciuto PBI grazie ad un evento organizzato dall’università  nella quale studiavo. La decisione finale di fare domanda l’ho presa dopo aver parlato con una ex volontaria del progetto Guatemala. Avevo voglia di conoscere in prima persona la lotta sociale e le difficoltà  che affrontano ogni giorno i difensori e le difensore dei diritti umani in America Latina, ed i suoi racconti sul lavoro sul campo mi hanno motivata. Mi ha colpito subito il modus operandi dell’organizzazione e i principi di non violenza, imparzialità  e non ingerenza sui quali su fonda. Grazie a questa filosofia l’organizzazione riesce a dare appoggio e sostegno a tante organizzazioni di base senza imporre la propria visione, rispettando la strategia e la lotta sociale che sostengono e rimanendo in secondo piano dando allo stesso tempo visibilità  a livello internazionale.

Quale progetto hai scelto? Perché proprio questo progetto?

Devo ammettere che non conoscevo molto la realtà  onduregna prima di imbattermi in PBI. Personalmente avevo già  fatto un’esperienza in America del Sud e volevo conoscere la situazione dei difensori e delle difensore dei diritti umani in Centroamerica. Adesso che ho terminato il mio anno di volontariato sono contentissima della mia scelta. L’Honduras è un paese bellissimo e allo stesso tempo complicato. Il movimento sociale è molto resiliente ma purtroppo non riceve l’attenzione internazionale che dovrebbe. La presenza di PBI per le persone accompagnate è molto importante in tutti i suoi aspetti.

Rispetto alle aspettative che ti eri creata, cosa ti ha sorpreso positivamente e cosa ti ha deluso?

In generale l’esperienza ha superato le mie aspettative su tutti i fronti. Forse quello che mi ha sorpreso positivamente di più è stata la velocità  con la quale mi sono fatta coinvolgere dalla realtà  onduregna e il grande ‘compromiso’ che ho sentito fin da subito stando a contattato con le persone accompagnate.

L’alta mole di lavoro non la definirei una delusione ma senz’altro una sorpresa, sopratutto pensando al lavoro di ufficio e di gestione più “amministrativa” che svolge il gruppo di volontari e volontarie. Il ritmo di lavoro è impegnativo e non comprende solo l’accompagnamento fisico come magari ci si può immaginare prima della partenza. Personalmente l’ho trovato comunque stimolante ed un fattore di crescita, allo stesso tempo, credo sia importante essere consapevoli di questo aspetto già  prima della partenza.

Ti è capitato di provare paura durante la tua esperienza? In che occasione? Come sei riuscita ad affrontarla?

Personalmente non mi sono mai sentita in pericolo, nonostante fossimo consapevoli dei possibili rischi che comportavano alcune attività  lavorative e le uscite nel tempo libero. Credo che la mia tranquillità  fosse dovuta anche dalla grande importanza che il progetto ripone sul tema della sicurezza de propri volontari.

Quale delle esperienze di accompagnamento o quale organizzazione protetta ti è rimasta più impressa e perché?

È molto difficile scegliere, personalmente mi sono affezionata molto a tutte le organizzazioni accompagnate ed alla lora causa. Ognuna di loro ha una storia propria e differente e un coraggio che ammiro. Tuttavia, c’è un’organizzazione che mi è rimasta più impressa per la forza di volontà , il coraggio e la resilienza delle persone che ne fanno parte ed è Arcoiris.

Arcoiris si batte ogni giorno per il riconoscimento e il rispetto dei diritti della comunità  LGTBIQ in Honduras. Gli attivisti e i rappresentanti dell’organizzazione mettono a rischio la lora vita ogni giorno, ricevono continue minacce di morte, sono vittime di violenza e di aggressioni. La donne trans sono purtroppo le più colpite da questa violenza, e le morti rimango per più del 90% dei casi nell’impunità . Ma nonostante tutto ciò, Arcoiris continua a portare avanti la sua lotta e ad offrire una casa a tante persone che sono discriminate spesso anche dalle proprie famiglie per la propria espressione, identità  di genere e/o orientazione sessuale.

Racconta un momento difficile e uno molto entusiasmante della tua esperienza nel progetto.

Il momento più difficile della mia esperienza è stato senza dubbio l’omicidio di Bessy, una donna trans, attivista di Arcoiris e nostra accompagnata. La brutalità  con la quale è stata uccisa e la consapevolezza di non poter evitare questi tipi di aggressioni mi hanno fatto riflettere molto e sono stati sicuramente difficili da processare, visto anche il legame affettivo.

Uno dei momenti più entusiasmanti è stato invece la liberazione dei 13 ambientalisti della comunità  di Guapinol, fortemente criminalizzati e accusati, tra gli altri capi d’accusa, di associazione illecita. Ho assistito probabilmente al processo più lungo della mia vita, per sette giorni consecutivi dalle 9 di mattina alle 1 di notte. Ma vedere la felicità  della famiglie, degli avvocati e della comunità  quando finalmente sono stati dichiarati innocenti per tutti i capi d’accusa è stata un’ emozione bellissima.

Come è stato lavorare e vivere in equipe con persone di diverse nazionalità ?

Difficile e divertente allo stesso tempo. Senza dubbio questo tipo di convivenza è molto intensa sopratutto con il cambio continuo di volontari. Per questo motivo, credo che sia fondamentale avere spirito di gruppo per non creare e/o risolvere eventuali conflitti.

Qual’è la cosa più importante che hai imparato in questa esperienza?

Credo che questa esperienza mi abbia fatto capire veramente cosa significa nascere in una certa zona geografica del mondo e i privilegi che mi vengo dati solo per la cittadinanza scritta sul mio passaporto.

Qual’è secondo te il punto di forza e il punto di debolezza del lavoro di PBI?

Credo che il punto di forza di PBI sia la sua presenza sul campo, il contatto diretto con le organizzazioni locali, e la rete di appoggio a livello nazionale e internazionale.

Il cambio continuo di volontari è una cosa positiva da una parte perché nuove persone portano nuove idee, però dall’altra può diventare un punto debole soprattutto se non si ha una coordinazione sul campo. Il cambio continuo infatti può rallentare la consolidazione del progetto e la perdita di memoria storica che in alcuni casi rischia di influenzare la relazione con gli accompagnati.

Alla luce dell’esperienza nel progetto, come valuti la formazione ricevuta e il sostegno di PBI durante il tuo periodo di servizio?

Valuto la formazione e il sostegno ricevuto in modo positivo. Le persone nel progetto si sono sempre dimostrate molto disponibili ed attente alla salute mentale e fisica dei volontari sul campo. Sicuramente la distanza a volte può ostacolare la comunicazione tra i veri organi del progetto e creare frustrazione ma credo che ogni progetto stia già  lavorando costantemente su questo elemento per migliorarsi.

Quanto è stata importante la Nonviolenza durante il progetto? Puoi fare un esempio di come si esprimeva?

Moltissimo sia per interfacciarci con le organizzazioni accompagnate che per la relazioni interne del gruppo. Per esempio, nel mio gruppo si è sempre fatta molta attenzione alla violenza verbale in casa e soprattutto durante il processo decisionale, cercando di creare uno spazio sicuro devo tutte le persone potessero esprimere il proprio pensiero.

Cosa ti sarebbe piaciuto facessero dall’Italia i soci Pbi mentre eri nel progetto? Lo hanno fatto?

Non ho avuto nessun tipo di contatto con il gruppo nazionale prima di partire, a parte con una persona che mi ha fatto la formazione pre-partenza. Credo che sarebbe utile che una volta selezionati e, soprattutto al rientro, il gruppo nazionale provi a contattare i volontari e non viceversa.

Pensi di continuare ad impegnarti per PBI ora che sei tornato in Italia? Come?

Sì mi piacerebbe tantissimo rimanere connessa in qualche modo a PBI. Ho già  offerto la mia disponibilità  per varie attività .

Cosa consiglieresti a chi vuole partire con PBI?

Ai futuri volontari consiglio di cercare di capire come lavora PBI prima di partire, di chiedersi se condividono i suoi principi perché sarà  importantissimo una volta sul campo. Di essere disposti a cambiare le proprie abitudini e riadattarle al contesto del paese in cui andranno. Ma soprattutto di vivere al meglio questa esperienza che ricorderete sicuramente per tutta la vita.

Hai un messaggio finale che vorresti trasmettere?

Alcuni brigatisti “veterani” mi hanno detto all’inizio dell’anno che PBI è “una escuelita”, e adesso che anche io ho terminato questa esperienza capisco finalmente il significato. Pbi ti aiuta a conoscerti meglio, ti insegna ad ascoltare gli altri, a mettere in discussione le tue idee, ti apre gli occhi, ti sfianca, ti frustra, ma soprattutto ti da la possibilità  di vedere che siamo in tanti a combattere per un mondo più giusto.

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Mi chiamo Tommaso Fornai e vengo dall’Italia. Dopo aver lavorato per qualche anno in America Latina, ho deciso di venire in Colombia perché il paese sta attraversando un momento unico nella sua storia ed io voglio esser testimone del cambiamento politico, sociale e culturale che il processo di pace rappresenta. Libertà  è partecipazione ed io sono contento di aver l’opportunità  di lavorare per un’organizzazione come PBI Colombia che offre ai difensori dei diritti umani la possibilità  di partecipare a questo processo, perché, secondo me, non può esistere nessun vero processo di pace senza il rispetto dei diritti umani di base (fundamental?). In questo periodo con PBI Colombia spero di imparare molto sul paese e sul metodo organizzativo basato sul principio dell’orizzontalità  ed allo stesso tempo contribuire al lavoro di questa organizzazione con il mio entusiasmo, felicità e determinazione!

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Marco Porcheddu

Marco Porcheddu è stato volontario di PBI in Colombia dal 2014 al 2016.

Cosa ti ha spinto/a a scegliere PBI come organizzazione con cui fare un’esperienza di volontariato?

Sebbene avessi già letto e sentito parlare di PBI fin dai tempi dell’università’, l’incontro tenutosi a Milano con ex volontari e collaboratori di PBI Italia ha risolto molti dubbi e mi ha fatto sentire ancora più sicuro nel decidere di lavorare con questa ONG. La Nonviolenza e le decisioni prese con il metodo del consenso, due dei principi fondamentali di PBI, sono valori/strategie che condivido a pieno e che quindi mi hanno spinto ancora di più a scegliere questa ONG.

Quale progetto hai scelto? Perché proprio questo progetto?

Sono stato sempre interessato alla Colombia; dopo aver scritto la tesi di laurea e del Master sulla situazione politica/conflitto/pace di questo paese, la scelta naturale è stata quella di scegliere PBI Colombia.

Rispetto alle aspettative che ti eri creato/a, cosa ti ha sorpreso positivamente e cosa ti ha deluso?
In positivo mi ha sorpreso molto la sensazione di appartenere veramente a una “grande famiglia” sulla quale si può veramente contare nei momenti più difficili del volontariato. Non parlerei di delusione, però i tanti protocolli ( sicurezza, burocrazia, immagine etc..), sebbene necessari, a volte possono risultare “pesanti” sopratutto quando combinati con momenti di stress fisico e/o emozionale.

Ti è capitato di provare paura durante la tua esperienza? In che occasione? Come sei riuscito/a ad affrontarla?
Non ho mai provato momenti di paura; di nervosismo sicuramente sì. Tuttavia il training precedente alla esperienza “in terreno” è studiato e realizzato appunto per essere in grado di affrontare situazioni complesse. Inoltre, il fatto di essere sempre minimo in due persone in terreno e di contare con l ́appoggio costante del tuo “equipo de terreno” è estremamente rassicurante e aiuta molto nel non perdere la calma.

Quale delle esperienze di accompagnamento o quale organizzazione protetta ti è rimasta più impressa e perché?
Per i tanti giorni spesi al fianco della Comunidad de Paz de San José de Apartadó e della Comisión Intereclesial de Justicia y Paz, devo scegliere queste organizzazioni anche se è impossibile  dimenticare gli accompagnamenti con il Movice Capitulo Sucre e con il Padre gesuita Javier Giraldo.

Racconta un momento difficile e uno molto entusiasmante della tua esperienza nel progetto.
Difficile: due compañeras accompagnavano membri della Comunidad de Paz in Urabá e incontrarono un gruppo di paramilitari armati. Dalla casa PBI è stato difficile rispettare i protocolli di  sicurezza per proteggere gli accompagnati e i volontari senza farsi prendere dall’emotività che in queste occasioni può interferire con un analisi razionale di quello che succede in “terreno”. Entusiasmante: le varie celebrazioni nelle comunità accompagnate dalle organizzazioni che proteggiamo – Comunidad de Paz, Camelias y Cacarica (Chocó). Natale e compleanni per esempio sono  momenti nei quali c’è un po’ più di allegria e serenità cosi che permettono di instaurare un rapporto ancora più forte con la gente “en terreno”.

Come è stato lavorare e vivere in equipe con persone di diverse nazionalità?
Molto bello e difficile allo stesso tempo; si impara moltissimo a livello personale e lavorativo da persone di diverse nazionalità che credono e lavorano per lo stesso obbiettivo, però è normale che in 18 mesi di convivenza ci siano momenti di tensione anche tra i volontari. Anche in questo caso ci sono delle strategie/tecniche per stemperare questo tipo di situazioni.

Qual è la cosa più importante che hai imparato in questa esperienza?
Ho imparato molto su me stesso essendomi trovato in situazioni (lavoro, vita privata, convivenza etc..) con le quali non mi ero mai dovuto affrontare in precedenza e grazie anche ai miei  colleghi/amici; lavorare con il principio del consenso è stata un esperienza unica e molto molto interessante, anche se non sempre facile.

Qual è secondo te il punto di forza e il punto di debolezza del lavoro di PBI?
La visibilità a livello nazionale ed internazionale, insieme ai suoi principi fondamentali – nonviolenza/imparzialità/orizzontalità e carattere internazionale- costituiscono il punto di forza di PBI. Allo  stesso tempo il rispetto di questi principi e i vari protocolli di sicurezza da seguire fanno sì che a volte le decisioni vengano prese solo dopo lunghi dibattiti/discussioni. È un processo che può  risultare frustrante (anche se indispensabile) sopratutto in situazioni di emergenza.

Alla luce dell’esperienza nel progetto, come valuti la formazione ricevuta e il sostegno di PBI durante il tuo periodo di servizio?
La formazione non si limita alle prime settimane nel progetto ma è continua durante tutto il volontariato. Sia il training formale sia l ́apprendimento da volontari più esperti è sempre stato molto valido e importante.

Quanto è stata importante la Nonviolenza durante il progetto? Puoi fare un esempio di come si esprimeva?
Semplicemente senza il principio della nonviolenza PBI non esisterebbe. È importante sottolineare che la nonviolenza in PBI non si manifesta solo negli accompagnamenti, ma anche a livello interno.  Si cerca sempre di ascoltare e rispettare tutte le opinioni, di capire le diverse posizioni e poi attraverso il metodo del consenso si giunge a una soluzione/decisione.

Cosa ti sarebbe piaciuto facessero dall’Italia i soci Pbi mentre eri nel progetto? Lo hanno fatto?
La verità è che non ho mantenuto molti contatti con PBI Italia da quando sono entrato nel progetto Colombia. Mi dispiace pero il ritmo è molto frenetico, si viaggia tanto e a volte ci si trova  totalmente immersi nella realtà colombiana che ci si dimentica di quello che succede fuori dalla Colombia. Un’idea potrebbe essere di registrare una chiacchierata Skype con qualche volontario e  mostrarla alle persone interessate all’incontro di formazione che si fa in Italia.

Pensi di continuare ad impegnarti per PBI ora che sei tornato in Italia? Come?
Al momento mi trovo ancora in Colombia lavorando nel settore dell’educazione con una no-profit. Seguo sempre il lavoro di PBI e cerco di aiutare con la visibilità “postando” articoli etc su social  media

Cosa consiglieresti a chi vuole partire con PBI?
Di fare tutte le ricerche possibili prima di partire; non avere paura di fare domande, di esprimere dubbi etc.. avvalersi dell’appoggio di PBI Italia per esempio prima di partire.

Hai un messaggio finale che vorresti trasmettere?
Difficile descriverlo qua pero sicuramente è stata una delle esperienze più belle, difficili, intense e gratificanti che abbia mai affrontato…. Ánimo!!!!

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Sara BallardiniSara Ballardini è stata volontaria con PBI in Colombia dal 2008 al 2010. Ecco la sua intervista.

Cosa ti ha spinto/a a scegliere PBI come organizzazione con cui fare un’esperienza di volontariato?
In PBI ho trovato tutti insieme i principi che cerco da tempo: nonviolenza, non-ingerenza, orizzontalità. La piena fiducia che solo la nonviolenza possa permettere una possibile uscita, a lungo termine, dai conflitti armati; la convinzione che debbano essere le persone del luogo a prendere in mano la situazione; la certezza che le decisioni prese insieme siano molto più efficaci di quelle imposte da un capo: tutto insieme, in un’unica organizzazione. PBI mi ha convinto fin dalle prime testimonianze che ho potuto ascoltare.

Quale progetto hai scelto? Perché proprio questo progetto?
Ho scelto il progetto Colombia perché aveva posti a disposizione nel momento in cui ho deciso di fare domanda con PBI. La scelta, nata un po’ per caso, è diventata poi una scelta ripetuta con convinzione: ha suscitato in me un forte interesse per le dinamiche del conflitto colombiano.

Rispetto alle aspettative che ti eri creato/a, cosa ti ha sorpreso positivamente e cosa ti ha deluso?
La imprevedibilità (sinonimo di sorpresa?) maggiore l’ho ritrovata nell’aspetto più umano sia di PBI che delle organizzazioni accompagnate. Da una parte, bellissimi slanci di solidarietà e convivialità nelle differenze, un entusiasmo sempre nuovo nell’accompagnare e nel promuovere i diritti umani, nel comprendere le difficili dinamiche del paese in conflitto; dall’altra, tutti i limiti tipici degli esseri umani, che rendono il comune agire una sfida quotidiana.

Ti è capitato di provare paura durante la tua esperienza? In che occasione? Come sei riuscito/a ad affrontarla?
Nei momenti di tensione, in presenza di individui dall’atteggiamento ostile, è stata per me importante la presenza di altre persone, con le quali poter condividere i timori e cercare, insieme, possibili opzioni per uscire da una situazione complicata, o smussare una condizione difficile.

Quale delle esperienze di accompagnamento o quale organizzazione protetta ti è rimasta più impressa e perché?
L’organizzazione che ho accompagnato più spesso è la “Comisiòn Intereclesial de Justicia y Paz”. Grazie ai lunghi accompagnamenti in zona rurale, ho potuto conoscere più da vicino i membri dell’ONG e il loro lavoro di difesa e promozione dei diritti umani di comunità campesinas.Con loro e grazie a loro ho accompagnato da vicino una resistenza legata alla Terra, che credo è (o dovrebbero essere) base e ragion d’essere di qualunque movimento nonviolento.

Racconta un momento difficile e uno molto entusiasmante della tua esperienza nel progetto.

Uno dei momenti più difficili è stato quando, durante le assemblee, le discussioni non finivano più ed era davvero difficile conciliare opinioni diverse per arrivare a una decisione comune condivisa. Un momento per me molto entusiasmante è stato quando partecipavo agli accompagnamenti nelle comunità in resistenza nel nord-ovest della Colombia: varie comunità (accompagnate direttamente o indirettamente da PBI) in questa zona del Paese rivendicano, in maniera nonviolenta, il diritto a vivere e a coltivare la propria terra.

Come è stato lavorare e vivere in equipe con persone di diverse nazionalità?
Vivere in equipe con persone di diverse nazionalità è stato un apprendimento continuo; grazie alla diversità d’approcci e visioni del mondo, ho imparato a prendere in considerazione punti di vista diversi e a mediare discussioni e decisioni in un ambiente ricco di varietà.

Qual è la cosa più importante che hai imparato in questa esperienza?
Penso che la cosa più importante imparata in quest’esperienza sia l’importanza delle relazioni umane, in qualunque contesto: grandi azioni prendono forza, o finiscono in un fallimento, proprio grazie all’autenticità delle relazioni interpersonali all’interno dei gruppi che le portano avanti. Tenere presente che l’attività d’accompagnamento, così come quella di promozione dei diritti umani, è sostenuta da persone con tutti i limiti e le esigenze di qualunque essere umano, mi fa ri-conoscere l’enorme importanza del curare le relazioni.

Qual è secondo te il punto di forza e il punto di debolezza del lavoro di PBI?

A mio parere, il punto di forza di PBI è la coerenza nel proporre e vivere nel concreto i principi forti e “rivoluzionari” come sono la nonviolenza, la non-ingerenza e l’orizzontalità nelle scelte. La debolezza, che mi ha sempre lasciata perplessa, è il rischio di mancanza di continuità e di perdita di informazioni importanti a causa del frequente ricambio di volontari/e.

Alla luce dell’esperienza nel progetto, come valuti la formazione ricevuta e il sostegno di PBI durante il tuo periodo di servizio?
La formazione di PBI è un processo serio, e per questo richiede tempo. Credo che le informazioni ricevute prima di entrare nel progetto siano state quelle necessarie e sufficienti per un primo approccio alla situazione colombiana e alla protezione dei difensori dei diritti umani. Chiaramente, in un’attività complessa com’è la protezione di attivisti in zona di guerra, la formazione non è mai “compiuta”, e sbagli e apprendimenti sono una costante che bisogna tenere presenti. A mio parere, il sostegno da parte di PBI è stato adeguato alle possibilità e alle condizioni del momento.

Quanto è stata importante la Nonviolenza durante il progetto? Puoi fare un esempio di come si esprimeva?
La nonviolenza è il principio fondamentale che muove l’attività di PBI. Eppure, periodicamente, è oggetto di dibattito, perché anche su questo principio ci possono essere punti di vista e opinioni diversi. Visibilmente, la nonviolenza si esprime in un rifiuto costante di qualunque azione che implichi l’uso di violenza, ma anche nella scelta di accompagnare organizzazioni che facciano della nonviolenza la propria strategia e il proprio strumento per promuovere un cambiamento nelle dinamiche di conflitto.

Cosa ti sarebbe piaciuto facessero dall’Italia i soci Pbi mentre eri nel progetto? Lo hanno fatto?
Mi sarebbe piaciuto poter mantenere un contatto via mail con i membri di PBI Italia; purtroppo, questo non è stato possibile perché non c’era una conoscenza personale fra di noi: mancava una relazione già instaurata nel momento della mia partenza.

Pensi di continuare ad impegnarti per PBI ora che sei tornato in Italia? Come?
Ora che sono rientrata in Italia sto partecipando alle attività di PBI Italia, nel limite del possibile.

Cosa consiglieresti a chi vuole partire con PBI?
A chi vuole partire con PBI consiglio di cercare contatti di ex volontari/e per parlare direttamente con chi ha avuto esperienza personale nel Paese del progetto. Credo che sia la forma più efficace per avere una prima idea di PBI, delle potenzialità e dei limiti del progetto. Consiglio vivamente anche di partecipare alla formazione di PBI Italia.

Hai un messaggio finale che vorresti trasmettere?
“Non esiste un cammino per la pace. E’ la pace il cammino.” Gandhi

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Guido Cenni insieme ad un'accompagnata

Guido Cenni è stato impegnato con PBI in Colombia da settembre 2011 a settembre 2012.

Cosa ti ha spinto/a a scegliere PBI come organizzazione con cui fare un’esperienza di volontariato?
l training di formazione che feci a Chivasso il 25 e 26 settembre 2010 fu decisivo nella scelta. Ben strutturato, chiaro ed efficace. E’ sempre stato mio desiderio personale lavorare per una ong come Pbi, fin dalle scuole superiori.

Quale progetto hai scelto? Perché proprio questo progetto?
Ho scelto il progetto Colombia perchè fin dagli studi universitari ero interessato a conoscere quella parte di mondo visto che avevo già partecipato ad un progetto in Guatemala con un’altra ong e viaggiato per l’America Centrale. Inoltre a suo tempo avevo una collega in Italia che era appena tornata dalla Colombia con Operazione Colomba e che mi aveva parlato positivamente di Pbi.

Rispetto alle aspettative che ti eri creato/a, cosa ti ha sorpreso positivamente e cosa ti ha deluso?
Mi ha sopreso positivamente il profilo alto dell’organizzazione in Colombia, considerata al pari di altre ong come Oxfam, MSF, Christian Aid, ecc; la metodologia di lavoro (consenso, non ingerenza, orizzontalità ed internazionalità). A volte mi ha sorpreso negativamente l’apparato burocratico che sta dietro il lavoro di Pbi.

Ti è capitato di provare paura durante la tua esperienza? In che occasione? Come sei riuscito/a ad affrontarla?
Non mi è capitato di avere paura anche se in varie occasioni abbastanza tese ho dovuto ricorrere agli insegnamenti della formazione PBI per poter andare avanti in condizioni che sarebbero potute essere rischiose, quindi prepararsi di anticipo è fondamentale. La formazione iniziale e continua in Pbi aiuta in questo. Altro aspetto importante è che in Pbi non sei mai solo nel prendere decisioni o trovarti in situazioni spiacevoli.

Quale delle esperienze di accompagnamento o quale organizzazione protetta ti è rimasta più impressa e perché?
Le esperienze di accompagnamento piu impresse sono tante e provengono da varie organizzazioni accompagnate da Pbi. Sicuramente la Comunidad de Paz de San Josè de Apartadò e La Comision Intereclesial de Justicia y Paz.

Racconta un momento difficile e uno molto entusiasmante della tua esperienza nel progetto.
Momento molto difficile: quando, accompagnando la ong Comision Intereclesial de Justicia y Paz i cadaveri di un padre e suo figlio; il primo era leader di una lotta per la restituzione di terre ingiustamente sottratte alla comunità, ed è stato fatto scomparire insieme al figlio giusto il giorno prima di una verifica da parte di funzionari statali che lui avrebbe dovuto condurre. Momento molto entusiasmante: accompagnamento alla ong Comision Intereclesial de Justicia y Paz durante la Camminata celebrativa dove sono state proclamate » zone di biodiversità» alcune aree e sono state poste delle lapidi laddove anni prima sono stati uccisi leaders della comunità.

Come è stato lavorare e vivere in equipe con persone di diverse nazionalità?
E’ stato molto bello ed interessante. L’internazionalità è un principio cardine di Pbi e viverlo ti far capire come in qualsiasi parte del mondo c’è qualcuno che pensa, lotta e lavora per i diritti umani come te e che insieme unendo le conoscenze e le forze si ottiene molto; inoltre è un arricchimento reciproco fantastico. Questo è Pbi.

Qual’è la cosa più importante che hai imparato in questa esperienza?
La cosa piu importante che ho imparato in questa esperienza è stata il lavorare in team con il consenso ed in maniera orizzontale. Ti da la spinta a continuare giorno per giorno.

Qual’è secondo te il punto di forza e il punto di debolezza del lavoro di PBI?
Punto di forza: i principi di Pbi (orizzontalità, imparzialità, nonviolenza ed internazionalità). Punto di debolezza: a volte i tempi troppo dilatati tra un fatto concreto e la reazione della ong. C’è un perchè ed è il consenso e l’orizzontalità, e Pbi continua a lavorare perchè si riduca il problema. Però è stato veramente sporadico il trovarsi a vivere questa debolezza.

Alla luce dell’esperienza nel progetto, come valuti la formazione ricevuta e il sostegno di PBI durante il tuo periodo di servizio?
Ottimi entrambi, sia la formazione che il sostegno di Pbi.

Quanto è stata importante la nonviolenza durante il progetto? Puoi fare un esempio di come si esprimeva?
La nonviolenza è un principio cardine di Pbi senza la quale non avrebbe la stessa rilevanza che ha e che le ha permesso fino ad oggi lavorare in contesti di conflitto avendo impatto su tantissimi attori siano essi armati o no, regolari o no, istituzionali o appartenenti ad oltre ong nazionali ed internazionali. Il principio della nonviolenza in Pbi Colombia si esprimeva, per esempio, ogni volta che si presenta la organizzazione e il modo di lavorare di quest’ultima. Molte volte.

Cosa ti sarebbe piaciuto facessero dall’Italia i soci Pbi mentre eri nel progetto? Lo hanno fatto?
Non sono in grado di rispondere alla domanda visto che non conosco perfettamente il lavoro di Pbi Italia quindi non posso giudicarlo.

Pensi di continuare ad impegnarti per PBI ora che sei tornato in Italia? Come?
Sì. Ho previsto già una serie di appuntamenti in giro per l’Italia dal 11 al 17 di novembre e spero riuscire apportare qualcosa di utile.

Cosa consiglieresti a chi vuole partire con PBI?
Di farlo perchè è stata un’ottima esperienza di apprendimento e di arrichimento reciproco sia coi colleghi/compagni di lavoro sia con i difensori dei diritti umani sia con le comunità accompagnate indirettamente. Penso però sia anche opportuno conoscere a livello nazionale Pbi prima di mettersi in tutta la procedura di selezione per capire meglio se definitivamente è quello che si sta cercando o meno. Compromettersi per lavorare un anno con Pbi all’estero implica tante cose ed è meglio mettersi in contatto in Italia col gruppo nazionale prima di proporsi per un progetto all’estero.

Hai un messaggio finale che vorresti trasmettere?
«Ella esta en el horizonte. Me acerco dos pasos, ella se aleja dos pasos. Camino diez pasos y el horizonte se corre diez pasos mas allà. Por mucho que yo camine, nunca la alcanzaré. Para que sirve la utopia? Para eso sirve: para caminar.» Eduardo Galeano.

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Matteo Burato

Matteo, cosa ti ha spinto a scegliere PBI come organizzazione con cui fare un’esperienza di volontariato?

Dopo diverse esperienze nel mondo del volontariato, stavo cercando qualcosa di diverso, che si distinguesse dal consueto modo di “fare cooperazione”. Diciamo che mi sono imbattuto in PBI in un momento in cui avevo quasi perso le speranze. L’aspetto che ha richiamato maggiormente la mia attenzione fu ciò che il COP definisce con il termine “non-ingerenza”. Un presupposto che ben si adattava alla mia idea di co-operare. PBI nasce con uno scopo ben preciso: difendere chi lotta per i diritti umani in contesti dove persistono forti conflitti sociali. Qui sta il punto. Si tratta di porsi al lato delle vittime e non di risolvere un conflitto da una prospettiva puramente occidentale, come invece operano numerose agenzie di cooperazione. In questo senso si tende ad affermare un diritto troppo spesso dimenticato: l’autodeterminazione dei popoli.

Quale progetto hai scelto? Perché proprio questo progetto?

Ho lavorato nel Progetto Colombia (COP). Non è stata una scelta facile decidere fra i 3 progetti che PBI porta avanti in America Latina, in quanto le mie esperienze passate mi hanno legato emozionalmente a questa regione. La scelta è ricaduta sulla Colombia perché è qui che vedo la maggior contraddizione nei termini di una dialettica capitale/società  civile. Per spiegarmi meglio: la Colombia rimane l’ultimo baluardo statunitense in America Latina, il terzo “beneficiario” (dopo Israele e l’Afghanistan) di una fitta cooperazione soprattutto di tipo militare. Questo comporta senza dubbio un enorme dispendio di capitali per sostenere una guerra che ormai si protrae da oltre mezzo secolo. Non sono da dimenticare poi gli interessi economici che stanno dietro a la cosiddetta “guerra sucia”. Ricchissima di acqua, minerali e petrolio, la Colombia continua a vivere un conflitto sociale senza eguali nel continente. Una lotta che si esprime su differenti livelli, tra gruppi sociali diversi , ma pur sempre legati dallo stesso desiderio: il potere e il controllo del mercato economico. .    

Rispetto alle aspettative che ti eri creato, cosa ti ha sorpreso positivamente e cosa ti ha deluso?

Ciò che mi sorprende in PBI è il concetto di orizzontalità . Tutte le decisioni che vengono prese all’interno del progetto sono il frutto di una lunga discussione che, in un modo o nell’altro, coinvolge tutti i volontari. Nel consenso non si cerca l’unanimità  assoluta. Si cerca le consapevolezza e soprattutto la responsabilità  nei confronti della decisione presa. Mi colpisce proprio questo; lo sforzo, a volte immane, per rimanere coerenti a questo principio. Non è facile, bisogna ammetterlo, perché la maggior parte di noi proviene da una società  basata su gerarchie. Scala gerarchica che si riflette su più livelli, dal basico nucleo famigliare ai più complessi rapporti sul luogo di lavoro.
Se c’è una cosa che mi sta deludendo è la tendenza a cui, a mio parere, si sta dirigendo il COP. Una tendenza alla professionalizzazione del volontariato, al diventare una ONG “istituzionale”, perdendo di vista forse il motivo centrale per cui siamo qui: le persone che accompagniamo. Questo si riflette sul lavoro stesso, sempre più politico, teso sempre più a relazioni diplomatiche di alto livello. A volte ho la sensazione che si stia preferendo il lavoro interno all’accompagnamento vero e proprio.

Ti è capitato di provare paura durante la tua esperienza? In che occasione? Come sei riuscito ad affrontarla?

No, non posso evidenziare alcuna situazione tale da avermi indotto a provare un senso di paura. Sarà  forse l’idea di una certa “immunità ” che portiamo addosso come volontari internazionali. Il COP, nei suoi 15 anni di Colombia, è riuscito a tessere un’importante rete di appoggio e di relazioni con le diverse autorità . Quando ci si muove nel terreno, tutti sanno dove e quando sarà  effettuato l’accompagnamento. Questo è per noi un punto di forza molto importante che riesce a trasmettere un buon grado di sicurezza. Un altro discorso si potrebbe fare quanto parlando delinquenza comune. Da questo tipo di violenza è difficile difendersi perché non si conoscono gli attori verso i quali provocare la nostra dissuasione. Ma diciamo che rientra in una paura generalizzata, non legata propriamente al lavoro di volontario con PBI.

Quale delle esperienze di accompagnamento o quale organizzazione protetta ti è rimasta più impressa e perché?

Le esperienze come accompagnante sono sempre emozionanti. Per esempio gli accompagnamenti nell’Oriente antioqueño mi hanno permesso d’entrare in stretto contatto con campesinos fuggiti dalla loro terra a causa del conflitto armato. Vedere in loro la volontà  di tornare, di voler riappropriarsi di un passato che gli è stato tolto e di un presente di cui non sono padroni è sempre qualcosa di veramente toccante. Sono le discussioni che maggiormente mi colpiscono e m’affascinano.

Racconta un momento difficile e uno molto entusiasmante della tua esperienza nel progetto.

Sicuramente uno dei periodi più duri fu il momento in cui a Medellin iniziarono i procedimenti giudiziari contro alcuni accompagnati, accusati di essere il braccio politico delle FARC. Ricordo le riunioni interminabili, i continui appelli alle autorità , lo stress che si faceva palpabile all’entrare dalla porta di casa. Soprattutto il senso che il nostro lavoro politico servisse a poco, data la gravità  delle accuse a cui erano sottoposte queste persone.  
L’entusiasmo. È difficile descrivere ciò che si prova in Brigadas, soprattutto durante gli accompagnamenti. L’entusiasmo è quotidiano. Te lo dà  la gente.

Come è stato lavorare e vivere in equipe con persone di diverse nazionalità?
In questo parto favorito, grazie ad altre numerose esperienze di vita comunitaria. La domanda è azzeccata e sottolineerei “lavorare e vivere”. Credo che la grande difficoltà  sia proprio data dal fatto che si è a stretto contatto, notte e giorno, 24 ore su 24, con le stesse persone. Va a fortuna. In gruppi affiatati si lavora molto bene; poi succede che l’entrata o l’uscita dei “nuovi” o dei “vecchi” rompe le carte in gioco e si è costretti a ripartire dall’inizio, cercando nuove forme di coesione.

Qual è la cosa più importante che hai imparato in questa esperienza?

A ridimensionare i “nostri problemi” come uomini occidentali. Le vicende di cui si è testimoni, o solamente semplici ascoltatori, sono così importanti che tutta la sfera personale entra in secondo piano. Aggiungerei anche che, attraverso il contatto con la cultura del luogo, il significato che oggi do alla parola “personale” ha assunto nuovi connotati. Le esperienze vissute aiutano a comprendere che spesso è solamente tramite uno sguardo della vita più “comunitario” che si riescono a realizzare i grandi sogni, le grandi lotte.  

Qual è secondo te il punto di forza e il punto di debolezza del lavoro di PBI?

Sto lavorando in PBI perchè in essa ho trovato un’organizzazione che non pretende risolvere, giudicare o esportare un modello bell’e fatto per uscire da questo conflitto decennale. Il punto forte è proprio questo, l’idea di aprire uno spazio, di favorire il diffondersi della tematica dei diritti umani attraverso le organizzazioni colombiane stesse.  Dare parola e voce a chi ha davvero il diritto e il dovere di parlare. Insomma i punti forti sono i principi che PBI ha adottato nel suo statuto: non violenza, imparzialità , non ingerenza, orizzontalità  e il suo carattere internazionale.
Questo suo “essere terza parte” imparziale all’interno del conflitto però ha una debolezza. In certi casi manca la forza che può avere una denuncia diretta. Inoltre, sulla base dell’orizzontalità , l’informazione all’interno del progetto è condivisa a tutti i livelli. Il flusso di notizie e informazioni è talmente grande che spesso la cosa diviene quasi disarmante e si deve fare uno sforzo per “stare al passo”.

Alla luce dell’esperienza nel progetto, come valuti la formazione ricevuta e il sostegno di PBI durante il tuo periodo di servizio?

Diciamo che il COP punta moltissimo sulla formazione iniziale e continua. Se non sbaglio, tra i progetti PBI, è quello con il periodo di formazione più lungo. Credo che sia un punto estremamente importante, su cui si dovrebbe insistere ancora di più. Valuto certamente positivi tanto la formazione come il sostegno ricevuti durante il periodo di volontariato. Si è seguiti da persone incaricate della sanità  mentale dei volontari, durante e dopo l’esperienza. PBI è tra le poche ONG ad avere questo privilegio.

Quanto è stata importante la Nonviolenza durante il progetto? Puoi fare un esempio di come si esprimeva?

Nel mio caso la scelta nonviolenta ha giocato un forte ruolo prima di mettere piede nel COP, soprattutto durante la formazione. Il fatto che la mia concezione filosofica della società , fin dall’inizio, abbia avuto un marcato accento marxiano, mi ha obbligato a riflettere molto sul mio integrarmi o meno in Brigadas. Diciamo che per me è stato una sorta di compromesso. Successivamente però, dal considerare la nonviolenza come uno strumento utile - e per me accettabile solamente all’interno di un conflitto come quello colombiano - ho iniziato a riflettere più profondamente su tale filosofia come stile di vita. In questo senso sto apprendendo come la nonviolenza implichi sacrificio per un lato, per l’altro però apre spazi sociali e/o individuali altrimenti impossibili.
Si esprime ogni giorno nel lavoro che facciamo e nel modo in cui stiamo pensando questo progetto. Praticamente. Per esempio non appoggiamo organizzazioni sociali che prevedano misure cautelari di sicurezza come la scorta armata; non accompagniamo il movimento sindacale anche perché molti dei suoi membri portano armi personali per difendersi.

Cosa consiglieresti a chi vuole partire con PBI?

Innanzitutto di prefissarsi un motivo forte che spinge alla partenza. Nel mio caso sono  stato degli ideali, delle idee che mi aiutano a dare un senso a quello che faccio, soprattutto nei momenti difficili. Per altre persone i motivi possono essere diversi (lavoro, esperienza, ecc…), ma credo che di fondo vi debba essere un obiettivo. Secondo, identificarsi nei principi che muovono l’azione di PBI, perché ogni giorno si è in contatto o in disputa con fatti e persone che hanno a che vedere con quei valori. Terzo, che è in definitiva un somma delle due cose, prendersi un periodo per pensare se davvero il mondo PBI ci appartiene. Giusto e lecito provare, però qualche ragionamento in più solleva da intraprendere un percorso straordinario e ricco d’umanità , ma sicuramente non facile.

Hai un messaggio finale che vorresti trasmettere?

“Un error no se convierte en verdad por el hecho de que todo el mundo crea en èl” (Gandhi)